lunedì 26 gennaio 2015

UN CORO SUL MATATU

Probabilmente il momento più emozionante del nostro soggiorno monco in Uganda. Abbiamo preso il Matatu (Minibus) davanti a casa. Appena saliti noto un gruppo di donne con lo stesso abito arancione, i capelli perfettamente in ordine. Una è bellissima, resto folgorato ancora oggi a pensarci. Sono un coro, stanno andando in chiesa a cantare. Allora affronto la timidezza e chiedo loro se ci fanno sentire qualcosa. Ed è magia.

CENTINAIA DI OCCHI ROSSI


Al funerale c'erano tutti dal commissario al sacrestano”, avrebbe potuto scrivere il più grande poeta del '900 italiano. Ed è stato così: un fiume di gente è uscito dal palazzetto ed ha percorso a piedi quel pezzo di strada che separa i due templi del villaggio. Proprio quel pezzo di strada sul quale era facile vederlo camminare, già ore ed ore prima della partita. Così come era facile vederlo in strada al mattino presto, prima del sole, seduto sulla panchina davanti all'edicola hockeystica, in attesa di andare al lavoro.
Un uomo della comunità nel vero senso della parola, uno che ha vissuto e lavorato tutta la vita per le strade di quella comunità, un uomo che nel giorno del suo funerale ha unito il villaggio intero, facendosi salutare da persone diverse, diversissime fra loro, che hanno riempito il pomeriggio di occhi rossi.

Alla fine del culto, uno dei due omonimi ha detto che il suo museo gli è dovuto. Resta in molti di noi membri della comunità, credo, il rammarico irrecuperabile che quel museo, se si riuscirà a fare, sarà soltanto un omaggio postumo ad un collezionionista altruista, perchè Ivan non teneva il suo tesoro per sé. Ti fermava per strada, scavava in un sacchetto e ti mostrava una foto, un gagliardetto, un dischetto.
Io credo che quel museo, per quanto piccolo dovesse essere, sia un dovere per la comunità che lui ha servito, e che lo ha accolto, facendomi sentire orgoglioso di farne parte.
Ciao Ivan Ballada, ti ho voluto proprio bene.